ITALHOOP intervista Umberto Vezzosi
Intervista ad Umberto Vezzosi, protagonista del “miracolo” Virtus Siena.
Abbiamo raggiunto per voi Umberto Vezzosi, responsabile tecnico della Scuola Basket Arezzo e protagonista in passato del “miracolo” Virtus Siena, società che per oltre un decennio ha scritto la storia della pallacanestro giovanile italiana.
Per Vezzosi parlano i numeri: nei suoi 16 anni (1999-2015) di Virtus Siena, la società toscana ha vinto 3 Scudetti giovanili e disputato 32 Finali Nazionali. Oltre alla vittorie e ai piazzamenti sotto la sua guida sono passati giocatori del calibro di Matteo Imbrò, Pierfrancesco Oliva, Amedeo Tessitori e Davide Bruttini (solo per citarne alcuni).
Tanti gli argomenti trattati, con la lente d’ingrandimento puntata sui cambiamenti necessari per rilanciare il movimento della pallacanestro giovanile italiana e sul percorso che un giovane giocatore dovrebbe seguire per emergere.
Che opinione ha della pallacanestro giovanile italiana?
In alcune società il livello è molto buono, con punte veramente di eccellenza, ma nella stragrande maggioranza di esse il lavoro viene fatto senza una programmazione e senza una metodologia: chiaramente in questo modo diventa difficile ottenere dei risultati con continuità. Questo è uno dei più grandi difetti della pallacanestro giovanile italiana.
Rispetto a quando ho allenato io, dove ogni società si distingueva per un qualcosa in particolare, negli ultimi anni ho visto tante cose fatte allo stesso modo, ovviamente alcune fatte meglio di altre. Noto una grande partecipazione dei ragazzi e grande disponibilità da parte delle società di base, che vorrebbero creare qualcosa ma non sanno come fare.
Se avesse la possibilità di intervenire sul movimento giovanile italiano, quali aspetti cambierebbe?
Quando ho iniziato ad allenare io nel settore giovanile ho giocato contro Ettore Messina, Sergio Scariolo, Renato Pasquali, Marco Crespi, Andrea Mazzon, Piero Bucchi e ho avuto la possibilità di ascoltare un allenatore illuminato come Bogdan Tanjević: quindi, se potessi intervenire sul movimento, ripartirei da figure d’eccellenza. Faccio un esempio: la Federazione ha creato i centri tecnici regionali, un’iniziativa molto importante, ma in questi centri tecnici i ragazzi dovrebbero lavorare meglio che nelle proprie società, altrimenti non ha senso! Ogni regione ha delle figure di riferimento, quindi secondo me dovrebbero affidare a questi allenatori la direzione del centro tecnico.
In secondo luogo credo che i giocatori crescano se si fanno crescere gli allenatori. Per far crescere gli allenatori non si possono far accavallare gli eventi, ed anche qui faccio un esempio: nel 2014 si sono disputate le Finali di Eurolega a Milano, dunque un’opportunità per gli allenatori di seguire un clinic importante, ma nello stesso periodo c’erano i Concentramenti Interregionali con i palio l’accesso alle Finali Nazionali. Tanti allenatori, me compreso, ovviamente non hanno potuto partecipare al clinic. Questi eventi non devono assolutamente coincidere, altrimenti diventa difficile far crescere chi ha veramente voglia di farlo.
Infine credo che la Federazione debba trovare un modo per essere maggiormente vicina alle società di base, perché sono quelle dove nascono i giocatori migliori. E’ vero che poi i migliori talenti si sviluppano nelle società più importanti, ma nascono quasi sempre in piccole realtà.
Lei ha guidato la Virtus Siena nell’olimpo del basket giovanile italiano, allenando giocatori come Imbrò, Tessitori e Oliva. Ci racconta cos’era la Virtus Siena?
La Virtus Siena ha iniziato a fare settore giovanile in una determinata maniera nel 1999, quando tutti lo avevano abbandonato ed è stata una realtà per certi versi irripetibile. E’ stata la società che ha fatto rifiorire il settore giovanile in Italia avendo un programma innovativo e in quegli anni ha insegnato il lavoro a molti. Poi in seguito questo tipo di programmazione è stata replicata e migliorata da altre società.
La Virtus Siena ha avuto un progetto chiaro ed una società ben strutturata, grazie al presidente Fabio Bruttini che ha fortemente voluto realizzare un sogno e che alla fine ha avuto meno riconoscenza rispetto a quanta ne meritasse. Abbiamo sviluppato tanti giocatori, abbiamo vinto Scudetti e ricordo molto volentieri i piazzamenti con squadre che non erano nemmeno pronosticate tra le prime 30 squadre in Italia. C’era un ambiente davvero speciale, dove un giocatore, non appena arrivava e indossava la nostra maglia, innalzava immediatamente il proprio livello: tutto l’ambiente trasmetteva una carica straordinaria!
Abbiamo anche partecipato a due edizioni dell’adidas Next Generation Tournament. La prima con i nati nel 1994, dove perdemmo la finale di due sole lunghezze contro il Fenerbahçe. In quel torneo andammo con un giocatore in prestito dall’Olimpia Milano, Lorenzo Bartoli, che non disputò la finale contro il Fenerbahce perché richiamato per un allenamento da coach Scariolo: in tutta onestà credo che a Bartoli avrebbe fatto meglio giocare la finale contro i turchi piuttosto che fare un allenamento. Quando ci richiamarono con l’annata ‘96 non portai nessun prestito proprio per quel motivo. In quell’edizione si mise in mostra, oltre ad Oliva, anche Severini che venne convocato per il Torneo di Mannheim, dove con Capobianco conquistò la medaglia d’oro.
C’erano anche tanti altri ragazzi degni di nota: alla Virtus Siena abbiamo cercato di allenare non solamente i talenti, ma anche i giocatori normali che poi alla fine son venuti fuori. Per esempio io ricordo come un giocatore “normale” Marco Giuri, che quest’anno ha giocato alla grande a Caserta in Serie A. Credo che a tutti questi ragazzi sia rimasto dentro almeno la cultura di come ci si allena, di come si affronta un allenamento, di come si affronta una partita, di come ci si prepara mentalmente per giocare l’azione decisiva: questa è una cosa molto importante che la Virtus Siena ha dato al basket italiano in quel periodo, anche avendo un budget nettamente inferiore rispetto ad altre società.
Prendiamo due esempi di giocatori da lei allenati, ovvero Pierfrancesco Oliva e Amedeo Tessitori. Il primo sviluppato per trattare la palla, mentre il secondo per giocare anche lontano da canestro. Quanto è difficile non speculare sulle abilità di un giovane ma tentare di svilupparne il potenziale?
Io credo che il percorso di un ragazzo debba andare sempre in ascesa e mai in discesa. Una delle poche volte in cui ho avuto la possibilità di parlare con Tanjević mi disse che quando osservavo un giocatore non dovevo guardare ciò che era in grado di fare in quel momento, ma quello che avrebbe potuto fare nell’arco di 3-5 anni. Tanjević diceva “se hai un giocatore di 2 metri e 10 prova a farlo giocare da playmaker, perché se ci riesci avrai un playmaker di 2 metri e 10 che non ha nessuno; se non può giocare in posizione di playmaker prova a farlo giocare da guardia, perché se ci riesci avrai una guardia di 2 metri e 10 che non ha nessuno; alla fine giocherà pivot ma non avrai sciupato nulla, però una volta ogni tanto ti può capitare il Bodiroga della situazione”.
Io ho sempre cercato di vederla in questo modo. Per esempio ho allenato Davide Bruttini, che adesso gioca a Brescia in Serie A2, e l’ho fatto esordire in Serie B1 (al tempo il terzo campionato nazionale) quando non aveva ancora 18 anni e giocava da esterno, dopo aver fatto tutte le giovanili con me da esterno: era un giocatore al livello di Gigi Datome. Appena si è mosso da Siena è stato sfruttato per le caratteristiche fisiche che aveva e ora gioca da numero cinque. Stesso discorso per Matteo Imbrò che era un grandissimo penetratore, caratteristica che ora a Ferentino sta emergendo nuovamente, mentre alla Virtus Bologna tirava solo da 3 punti.
Al termine del Torneo di Mannheim coach Capobianco ha dichiarato che “l’Italia ha voglia di essere una straordinaria realtà della pallacanestro giovanile”. Quanto è distante questo pensiero dall’attuale realtà?
Premetto che a me chi fa proclami piace, quindi coach Capobianco ha fatto bene a dire dove l’Italia vuole arrivare. Per raggiungere quel tipo di obiettivo, però, bisogna sistemare alcune cose, prima su tutte riportare le eccellenze nei posti in cui occorre fare il salto di qualità.
Il sistema pallacanestro giovanile deve stare vicino e supportare quegli allenatori che possiedono giocatori in grado di far fare il salto di qualità al sistema stesso. Prima ho citato l’esempio di Severini che vinse il Torneo di Mannheim: lui stette via 15 giorni con la Nazionale, quando tornò avevamo l’Interzona a Pesaro per conquistare l’accesso alle Finali Nazionali. Oliva era appena partito per l’America e Severini tornò da quell’esperienza felice ma al tempo stesso distrutto, infatti sbagliò le prime due partite e noi non ci qualificammo per le Finali Nazionali. Io sono contento che la Nazionale abbia vinto, che Severini abbia fatto bene, ma dal punto di vista della società ci abbiamo rimesso. Mi sarebbe piaciuto che questa cosa ci fosse stata riconosciuta.
Il “suo” Pierfrancesco Oliva è stato il precursore dello sbarco oltreoceano degli italiani. Che spiegazione può darci riguardo questo fenomeno in netto aumento?
Innanzitutto oltre ai soliti giocatori di cui si parla spesso, citerei anche Marco Pascolo, fratello di Davide, che io ho avuto per diverso tempo alla Virtus Siena. Lui secondo me è un super giocatore e credo che quando tornerà in Italia ci sarà la fila di società che lo vorranno. E’ un giocatore tecnicamente e fisicamente molto più forte del fratello, probabilmente Davide al momento ha qualcosa in più a livello caratteriale.
Il fatto che tanti ragazzi intraprendano questo tipo di percorso dipende da tanti fattori: il primo è il sogno di diventare giocatori professionisti, raggiungibile più facilmente allenandosi negli States rispetto che da noi, visto che il livello medio della pallacanestro italiana si è abbassato. Poi voglio far notare che i nostri ragazzi andati in America sono sempre stati bravi tecnicamente, ben allenati e di talento, ma c’è stato anche un miglioramento fisico: io vedo gli italiani tener botta anche contro ragazzi americani o di altre nazionalità. L’ultimo fattore è la voglia che hanno questi ragazzi di abbandonare l’Italia, dovuta anche alla crisi che stiamo attraversando e al fatto che giocare nelle prime squadre diventa molto difficile: un mondo che prima sembrava essere molto lontano, ora è considerato più vicino grazie alla globalizzazione e a programmi come Skype.
La crisi economica ha fatto sì che le società investissero ancora meno sul settore giovanile, con ripercussioni ovviamente sullo staff e sulla programmazione livellata verso il basso.
Io credo tantissimo nella programmazione: il contrario della programmazione è l’improvvisazione. Con l’improvvisazione qualche volta può andar bene, ma la maggior parte delle volte non si ottiene nulla; con la programmazione, invece, qualche volta può andar male ma la gran parte delle volte si ottengono dei risultati. Bisogna insistere sulla programmazione, anche se i risultati non arrivano nell’immediato, senza avere ripensamenti.
Lo staff è fondamentale: la società deve essere la base, deve avere idee, seguire un metodo di lavoro e dettarne i ritmi. Solo in seguito c’è lo staff tecnico, che deve lavorare in sinergia con lo staff fisico, quello medico, con i fisioterapisti, i nutrizionisti e così via. Se una società ha un gruppo di lavoro così, i risultati prima o poi arrivano, considerando sempre il talento tecnico e fisico a disposizione. Non si può, però, pensare di avere una struttura di questo tipo gratuitamente, occorre che le società stanzino una parte del budget per questa organizzazione, che ripagherà sicuramente un grandissimo ritorno.
Quale pensa che sia il percorso corretto per un giovane di livello che termina il settore giovanile?
Innanzitutto un giocatore deve lavorare correttamente a livello giovanile e, al termine di questo percorso, deve avere un ruolo identificato ed almeno un movimento che lo renda appetibile per le società senior.
Non penso che per un ragazzo la scelta migliore sia quella di andare subito in una società di primo livello, bensì dovrebbe scegliere una società dove possa giocare parecchi minuti, ovviamente in base al merito, e sopratutto dove continuino a farlo crescere e non solo dove lo sfruttino per ciò che sa fare.
Così facendo la scalata verso una società di primo livello sarebbe sicuramente più semplice da affrontare, invece spesso in Italia se c’è un talento viene subito reclutato da una società di Serie A, che magari lo fa anche giocare, ma non essendo pronto poi finisce per perdersi da qualche altra parte.