ITALHOOP intervista Marco Crespi
Intervista a Marco Crespi, coach dall’esperienza trentennale ai massimi livelli sia in Italia che in Europa.
Al termine del Mondiale Under 19, in cui l’Italia ha conquistato la medaglia d’argento, abbiamo intervistato Marco Crespi, telecronista Sky per l’occasione (ruolo che ricopre dall’ottobre 2016).
Prima dell’avventura da commentatore per la piattaforma televisiva satellitare, una carriera trentennale da allenatore in cui spiccano i 17 anni all’Olimpia Milano, le promozioni in Serie A con Biella e Casale Monferrato, le esperienze spagnole alla guida di Siviglia e Vitoria e lo scudetto sfiorato con Siena nella stagione 2013-14. Inoltre, il coach nativo di Varese ha collaborato con il Settore Squadre Nazionali: allenatore della Nazionale Under 22 nel 1997-98 e assistente di Bogdan Tanjevic ai Mondiali del 1998 (5° posto), agli Europei del 1999 (medaglia d’oro a Parigi) ed alle Olimpiadi di Sydney nel 2000 (5° posto).
Nel corso della sua carriera, lei ha ricoperto ogni ruolo possibile all’interno del parquet. Quali sono le principali differenze tra un giovane che voleva diventare professionista 10-15 anni fa ed uno che prova a farlo oggi?
Penso che quando si parla di differenze si vogliono fare dei confronti, tentando di analizzare sviluppi e situazioni diverse. Però credo che questo sia un percorso falso: per un giovane che vuole diventare professionista con un certo tipo di importanza, l’esigenza è sempre quella che viene dal campo. Il campo guida le ambizioni di un giovane, il campo è esigente e richiede qualità, serietà, costanza e continuità.
Durante la telecronaca della gara tra Italia e Canada, ha parlato molto di Lorenzo Bucarelli: può essere lui il prototipo del giovane che vuol fare il giocatore professionista nel 2017?
L’esempio di Bucarelli è corretto: penso sempre che per indicare il livello di produzione a livello di annate dei vivai, non si deve mai guardare alle punte. Gallinari è un talento, un fenomeno che non è assolutamente frutto del movimento: è un dono che il basket italiano riceve. Credo che la qualità e la produzione del basket italiano debba essere guardata sulla tipologia Bucarelli, su quanti e quanto bravi Bucarelli ci sono.
Bogdan Tanjevic, durante l’Italian Basketball Summit di Sky, ha dichiarato:”Ci dobbiamo mettere d’accordo sulla definizione di giovane. Sento dire che ancora lo è Amedeo Della Valle, che ha già 24 anni. Io a 24 anni ho smesso di giocare“. Ci dia la “Marco Crespi” definizione di giovane giocatore.
Senza addentrarsi in percorsi pseudo-filosofici, esistono i campionati giovanili e i campionati giovanili si concludono con l’Under 18. Quindi si è giovani fino ai 18 anni, poi si è adulti visto che c’è anche la maggiore età. E quando si raggiunge la maggiore età nel basket si è adulti, si può essere anche giovani adulti ma si è già adulti.
Al termine del torneo di Mannheim (aprile 2016), chiuso con la medaglia di bronzo da Moretti e compagni, coach Capobianco dichiarò: “L’Italia ha voglia di essere una straordinaria realtà della pallacanestro giovanile“. Nei mesi seguenti sono arrivate altre due medaglie, sempre dal gruppo ’98-’99: bronzo europeo e argento mondiale. Secondo lei quanto e cosa manca, se manca, all’Italia per avvicinarsi alla parole di Capobianco?
Innanzitutto Capobianco è a capo del Settore Squadre Nazionali a livello di attività giovanile maschile e, ovviamente, deve usare delle parole che siano di riferimento per tutti. Io credo che non si possa giudicare la qualità di un movimento dai risultati di una Nazionale. Faccio un esempio relativo a questa estate: l’Under 19 ha conquistato uno splendido argento, mentre l’Under 20 ha rischiato di retrocedere in Division B. Quindi se guardiamo i risultati nell’Under 20 il movimento giovanile italiano è un disastro, mentre nell’Under 19 è primo in Europa: sarebbero due affermazioni completamente false. Credo che la qualità del movimento si esprimerà quando in ogni club di Serie A1 e di Serie A2, o in club specializzati, verranno effettuati degli investimenti per creare delle strutture atte alla formazione. In questo momento, sulle 48 squadre che occupano le prime due serie, la percentuale di quelle che lavorano investendo veramente sul settore giovanile è del 15%: quando avremo la percentuale dell’85% vorrà dire che il nostro movimento giovanile è qualcosa di serio.
Il recente argento al Mondiale U19 ha sollevato nuovamente il dibattito sul “facciamo giocare gli italiani”. Se potesse sedersi ad un ipotetico tavolo di analisi, quali iniziative proporrebbe per far giocare i giovani e migliorare questa situazione?
La Germania ha 6 stranieri e 6 tedeschi, mi sembrerebbe semplicissimo mettere questa regola anche in Italia. Soprattutto in Serie A, perché il campionato deve avere un’identità che sarebbe tutelata dai 6 giocatori italiani. Ovviamente chi investe lo fa per produrre risultati e non avere delle gabbie nel formare le squadre, quindi penso che i 6 stranieri siano un numero giusto affinché si possa vendere uno spettacolo. E anche per la crescita del giocatore italiano sarebbe un qualcosa di importante: fare delle quote protette non significa competizione. Bisogna essere realisti ed avere il coraggio di dire le cose come stanno: oggi un giocatore che termina il percorso giovanile viene utilizzato come quota italiani. Io credo che sarebbe opportuno creare una struttura dove i campionati abbiano dei limiti di età a salire, al di là di inserire dei fuori quota particolari: Serie D Under 22, Serie C Under 24, Serie B Under 26 e così via, in modo tale che siano dei veri campionati di formazione.
Lei ha dichiarato che il campionato di Serie A2 non è competitivo a livello motivazionale. Quello di Serie A potrebbe esserlo ma, dati alla mano, un solo giocatore Under 20 (David Okeke) ha avuto spazio nella seconda parte di stagione. Siamo entrati in un limbo nel quale più si va avanti e più è complicato uscirne?
Innanzitutto penso che i giocatori devono dimostrare, dal punto di vista tecnico, che ha senso metterli in campo. Perché un club deve fare giocare un giovane? Un club fa giocare un giovane perché: lo aiuta a vincere; può essere un’occasione di risorsa economica, riduzione dei costi o cessione di diritti sportivi; per dare un’identità e far arrivare risorse a livello di biglietti e di magliette vendute. In più credo che un allenatore deve essere valutato per il lavoro che fa su un giovane e non solo su un rapporto vittoria/sconfitta o se vincerà o perderà la prossima partita. Allora credo che sia un falso problema inventare o cambiare per l’ennesima volta le regole per far giocare i giovani: non devono cambiare le regole, deve cambiare la cultura nell’analizzare il problema, partendo da qual è l’esigenza di un club e da come va tutelata, valutata e premiata.
Parlando di RJ Barrett, MVP del Mondiale Under 19, ha dichiarato che ormai non conta più in quale posizione giochi un giocatore, bensì in quante situazioni di gioco un giocatore può essere efficiente. Questo pensiero non va in controtendenza con quanto si prova a fare in Italia, ovvero tentare di specializzare i giocatori in determinate situazioni? Possiamo prendere come esempio Awudu Abass, sempre più utilizzato come 3&D.
Il basket va sempre meno verso una definizione di ruoli, ma verso giocatori versatili. Ovviamente il giocatore versatile è il giocatore ricco di talento, ma all’interno di una squadra non ci devono essere cinque prime punte. La composizione della squadra è dentro la versatilità, poi ci sono gli specialisti. Abass è un 3&D, tante squadre NBA hanno in quintetto giocatori con queste caratteristiche, però anche il 3&D deve avere capacità di letture e saper giocare insieme agli altri. Però la specializzazione non è opposta alla versatilità, la versatilità a cui mi riferisco riguarda i ruoli in campo: non ci sono più le posizioni canoniche come succedeva cinque anni fa (e non cinquanta anni fa).
12 giocatori italiani (ad oggi) saranno impegnati in Division 1 NCAA nella prossima stagione: lei ha dichiarato “questo significa qualcosa…“, lasciandoci in sospeso. Esattamente, cosa significa?
Innanzitutto siamo nel 2017 e questo è un fatto di società in generale. Riguardo la pallacanestro, i giocatori vanno lì perché è tutto collegato, perché quando un ragazzo finisce di essere giovane ha un campionato dove giocare e poter giocare. È meglio fare la quota italiani in Serie A2 o fare un’esperienza di vita, umana e scolastica negli Stati Uniti? A tanti giovani che ho allenato, sinceramente, ho consigliato di andare a fare quel tipo di esperienza negli Stati Uniti. I recenti esempi di Federico Mussini e Amedeo Della Valle sono importanti, loro hanno accettato una sfida: se una persona vuole essere ambiziosa deve accettare le sfide e non rimanere dentro le quote protette.
Draft NBA. L’ultimo italiano ad essere chiamato al primo giro fu Danilo Gallinari nel 2008, poi Gentile con la numero 53 nel 2014. L’Italia, in quasi 10 anni, ha prodotto un solo giocatore di interesse per il secondo giro. Qual è il messaggio che passa?
Io penso che la cartina tornasole della produzione del nostro movimento dovrebbe essere sperare, sognare, verificare che un giocatore italiano venga scelto al secondo giro o magari anche agli ultimi 10 posti del secondo giro del draft NBA. Perché significherebbe che c’è una produzione di giocatori che, nonostante non abbiano il dono del grande talento, possono essere guardati, seguiti, proiettati dal campionato più importante del mondo. Un discorso simile riguarda l’Eurolega: Melli è un eccellente esempio di giocatore che era molto interessante a livello giovanile, che a Milano per vari motivi è stato circondato da punti interrogativi e che adesso si è affermato come un giocatore solido per essere un pezzo della squadra campione di Eurolega.
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