INTERVISTE

ITALHOOP intervista Germano D’Arcangeli

L’intervista a Germano D’Arcengeli, responsabile del settore giovanile della Stella Azzurra Roma.

Prosegue l’inchiesta estiva di ITALHOOP sullo stato della pallacanestro giovanile italiana. Abbiamo intervistato Germano D’Arcangeli, responsabile del settore giovanile maschile della Stella Azzurra Roma e capo allenatore dei campionati di Serie B, Under 20 Eccellenza e Under 18 Eccellenza.

D’Arcangeli è una delle eccellenze del movimento giovanile italiano ed ha saputo estendere i confini della Stella Azzurra sia in Italia che all’estero: oltre alla collezione di Finali Nazionali raggiunte, spiccano i tre Scudetti giovanili conquistati nel biennio 2013-14 / 2014-15 ed il prestigioso successo nella tappa romana dell’adidas Next Generation Tournament 2014, a cui si aggiunge il recente trionfo nell’European Youth Basketball League Under 16.

Tanti gli spunti di riflessione che ci ha concesso, su cui ragionare attentamente: si passa dallo stato attuale del “sistema” pallacanestro giovanile fino alle motivazioni che spingono una società di vertice in Italia ad estendere i propri orizzonti verso l’estero.

 

Che giudizio ha sulla pallacanestro giovanile italiana? Quali sono gli aspetti su cui siamo all’avanguardia e dove invece risultiamo carenti?

Il giudizio è difficile da dare, anche perché io ne sono completamente immerso e probabilmente non sono terzo rispetto ad eventuali problemi. La mia idea è che non esista un manuale d’istruzione che ci aiuti a portare avanti la pallacanestro giovanile italiana. Esistono però persone, che definirei brillanti, che hanno contribuito a renderci all’avanguardia rispetto a tanti altri settori nel nostro sport.

Ad esempio la preparazione fisica è superiore rispetto al passato, soprattutto se confrontata con i pari età dell’est o del nord Europa. Inoltre l’arte di arrangiarsi e la capacità di fare con il poco che abbiamo a disposizione credo non siano seconde a nessuno. Senza il supporto da parte di nessuna istituzione, riusciamo a creare ugualmente delle opportunità per i giovani.

Siamo costretti ad industriarci, ma le carenze rimangono evidenti: valori di riferimento, impiantistica, classe dirigenziale, alcune regole di cui non sappiamo chi le ha volute e tantomeno a cosa servano.

 

Cosa modificherebbe, se potesse, del “sistema” pallacanestro?

Se potessi, forse, non farei niente. Non perché vada tutto bene, ma piuttosto perché le mani sono già state messe un po’ troppo spesso: quasi ogni mese c’è un cambiamento di programma, una nuova regola, un nuovo “Piano Marshall” che riguarda il basket e sopratutto il basket giovanile. In questo modo tutti facciamo maggiore fatica, perché come dico sempre “il cerchio dentro il quale dobbiamo stare un po’ tutti ci stritola anziché contenerci”. Semplificando, abolendo tutta una serie di “leggi contra personam”, forse nel cerchio ci staremmo tutti e sopratutto ci staremmo più comodi.

Ad ogni modo accetto il “gioco” e se fossi in chi deve prendere certe decisioni, come prima cosa, abolirei l’obbligo degli under, che non ha portato ad alcun risultato.

In secondo luogo ridurrei i campionati a disposizione e le restrizioni regolamentari (ad esempio il divieto di difendere a zona oppure i cambi obbligatori), puntando a premiare, piuttosto che reprimere, chi si comporta in maniera virtuosa.

Investirei inoltre su un piano di promozione e di marketing in quelle città che sono “smart” ma che non hanno più di 100.000 abitanti. Queste città rappresentano un bacino di utenza di circa 15 milioni di persone nel nostro paese, di cui il 70% non pratica alcuna disciplina sportiva.

Infine proverei a coinvolgere la “vecchia guardia”, quelli che ora si lamentano con noi perché giochiamo il pick&roll. Per sapere dove dobbiamo andare dobbiamo conoscere da dove veniamo: su questo aspetto i lituani o gli spagnoli lavorano sicuramente meglio rispetto a noi.

 

Negli ultimi anni la Stella Azzurra si è spinta verso il reclutamento di giocatori stranieri, impreziosito dal programma dell’Academy. Cosa spinge una società di vertice in Italia ad estendere i propri orizzonti all’estero?

Nel nostro caso abbiamo scelto di guardare a quel tipo di reclutamento perché volevamo arricchire il nostro caleidoscopio di nuove culture, nuove esperienze, nuove religioni e ovviamente di giocatori veramente forti. Abbiamo fatto un salto di qualità incredibile! Siamo stati, per necessità e forse per dovere, più professionali ed abbiamo dovuto prepararci maggiormente perché sapevamo che non sarebbe stato facile.

Incrementare la partecipazione di giocatori stranieri alle nostre attività quotidiane ed abitudini ha significato superare il modello di “integrazione subalterna”, che vede nei giocatori non italiani una mera forza lavoro o solamente la possibilità di aumentare le chance di vincere. Piuttosto siamo stati necessitati a riconoscere la complessità delle relazioni che questi ragazzi portano in dote, per esempio interpretando attivamente le loro tradizioni (e credetemi ce ne sono di fantastiche al di fuori dal nostro paese!), rinnovandole da noi alla Stella Azzurra e gestendo i cambiamenti che il nostro contenitore crea nelle loro teste. Secondo me è antistorico continuare a fare rivendicazioni identitarie sugli italiani e l’italianismo in una fase di mondializzazione che vede una creazione continua di reti e intrecci tra persone provenienti da contesti geografici diversi. Noi, inteso come noi italiani, vogliamo sempre chiuderci nella torre, vogliamo difendere il made in Italy, vogliamo far giocare gli italiani. Spesso però usiamo due pesi e due misure, basti pensare alle molteplici forme di famiglia in uno stato che si vorrebbe laico ma che ha un calendario scolastico scandito dalle festività religiose o i negozi chiusi alla festa del patrono. Siamo italiani quando ci fa comodo, quando gioca la nazionale…

Il nostro obiettivo non era, però, risolvere o affrontare tutto questo: noi volevamo trasformarci in una Academy, visto che di società che lavorano a livello giovanile ce ne sono tante. Abbiamo voluto mettere al centro del nostro lavoro il giocatore, il giovane uomo che c’è in lui, puntando anche sul lato accademico di una teorica formazione e in questo i ragazzi stranieri sono più disponibili e, forse, più pronti. Gli italiani invece sono un disastro, viziati e senza la scolarizzazione necessaria. In ogni caso il livello dei giocatori italiani non è così malvagio come qualcuno ci induce a pensare: anzi, di giocatori forti ce ne sono tanti, basta solamente scovarli e farli giocare.

 

Lo scorso anno avete disputato la fase finale dell’adidas Next Generation Tournament, dopo aver trionfato nella tappa di Roma. Che differenze ha riscontrato nell’affrontare squadre di così alto livello?

Abbiamo affrontato squadre come il Real Madrid, che ha un paio di milioni di euro da spendere sul settore giovanile, e come l’INSEP (il “Centre Fédéral du Basket”) che è finanziato e diretto dal Ministero dello Sport francese. Quel tipo di confronto ci ha convinto che non eravamo così forti come credevamo e che la nostra difesa non era all’altezza, ma niente più di questo.

Loro competono come noi, ma non è il punteggio finale che determina il “come”. Spesso il lavoro fatto da quel tipo di società ha, rispetto a quello che avviene in Italia, una vision più a lungo termine. Credo però che un giocatore cresca senza la periodizzazione del proprio lavoro condizionata dal risultato di una partita o da una finale.

 

La Stella Azzurra è tra le società italiane che disputano il maggior numero di gare contro team stranieri. Quanto è importante per un giovane confrontarsi fin da subito con una pallacanestro diversa rispetto a quella che si gioca in Italia?

E’ sicuramente molto importate. Va di moda dire che i giocatori che non hanno quel tipo di esperienza non possono giocare o crescere bene, ma a me sembra spesso una scusa per giustificare qualcuno o qualcosa.

Noi facciamo questo tipo di attività perché così possiamo far giocare chiunque e in qualsiasi modo: possiamo portare solo giocatori italiani o solo giocatori stranieri, solo quelli alti o solo quelli bassi, fare 40 minuti di zona o metterli uno sopra l’altro senza che qualche “telefonatore” benpensante condizioni i ragazzi e il loro lavoro.

Spesso si fa lontano dai genitori e quindi consente un’emancipazione che altrimenti sarebbe “difficile” (diciamo così, per essere buoni…). E poi non ci sono scuse che tengano: mangi quello che ti danno, giochi dove è possibile e quando devi. Per quanto ne so, in tanti stanno cercando di seguire questo tipo di percorso: è addirittura divertente! I costi sono proibitivi, ma ne vale la pena.

 

Quest’anno, con il vostro gruppo Under 20 avete preso parte al campionato di Serie B: è davvero così difficile puntare sui giovani? Cosa potrebbe fare il movimento per risolvere questa criticità?

Intanto molti giocatori che escono dai settori giovanili dovrebbero studiare e non giocare o perder tempo: giocare a basket è meglio che lavorare, ma non può essere così per tutti o per regolamento. Proteggerli nella categoria degli under non li aiuta di certo a giocare: deve giocare chi è forte, ancor meglio se giovane.

Ai miei colleghi consiglio di seguire questi ragazzi perché ce ne sono di meritevoli: qualcuno può essere una scommessa ma altri, tanti altri, sono pronti. E’ inevitabile che abbiano inizialmente delle difficoltà, ma con un po’ di pazienza è possibile superarle, soprattutto con il lavoro. E’ questo che spesso fa la differenza: se non lavorano non diventano niente, ma sta a noi farglielo capire e farli lavorare. Spesso i ragazzi al temine del percorso giovanile si comportano come chi ha messo sempre le proprie monete nel salvadanaio ma ad un certo punto lo rompe perché vuole monetizzare. Dovrebbero invece, dopo i 18-20 anni, continuare a mettere i loro risparmi nel salvadanaio, continuare a lavorare duramente, fare apprendistato e poi finalmente “monetizzare”.

Il movimento credo che debba programmare maggiormente e non fare ogni volta dei cambiamenti in corsa. Dovrebbe forse smettere di pensare ai giocatori di 22/23 anni come giovani e dovrebbe concepire, come detto in precedenza, una semplificazione delle regole che sia globale e che non insista ogni volta solo sulla martoriata fascia d’età che va dai 12 ai 18 anni.

 

Avete conquistato l’accesso alle tre Finali Nazionali introdotte quest’anno, non risentendo apparentemente del cambio dalle categorie dispari a quelle pari.

Del cambiamento non se ne sentiva l’esigenza, ma onestamente non ha stravolto i nostri piani. Noi abbiamo fatto più o meno quello che avevamo programmato e che abbiamo svolto negli ultimi cinque anni e, secondo me, anche le altre società non ne hanno risentito. La rivoluzione non c’è stata: sono cambiate le categorie, ma i giocatori sono rimasti gli stessi.

 

E’ possibile standardizzare lo sviluppo fisico-tecnico-tattico di un giocatore prendendo come base le categorie U16-U18-U20?

Nella nostra tradizione il giocatore deve lavorare. Per farlo, abbiamo adottato una periodizzazione cosiddetta “lineare”, che permette al giocatore di svilupparsi progressivamente nelle varie categorie citate. Non c’è però una teoria che sia valida per tutto e tutti, ogni singola situazione va analizzata e studiata nel dettaglio.